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Non uscire più di casa

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Pubblicato da Prismo

Meik Wiking, CEO del The Happiness Research Institute di Copenhagen, prova a spiegare così il significato della parola danese “hygge”, nelle prime pagine del suo libro Hygge. La via danese alla felicità: “È la sensazione di essere a casa, di trovarci al sicuro, di essere protetti dal mondo e poter quindi abbassare la guardia”.

Il suo libro, pubblicato nel Regno Unito da Penguin Life nel settembre 2016 e uscito in Italia per Mondadori nel gennaio 2017, è nella classifica dei top ten bestsellers del The Times e su Amazon UK è il libro più venduto nella categoria Interior Design Styles & Decor.

Sebbene Wiking ci tenga a ripetere più volte che l’hygge è legata a un’atmosfera, a un certo modo di vivere un’esperienza o una situazione, più che a oggetti veri e propri, i beni di consumo associati a questo stile di vita e raccontati nel libro sono i più svariati: si parla infatti di lampade, candele, cibo, cioccolato, bevande, tè caldo, abbigliamento, calzini di lana, maglioni, mobili vintage, camini, oggetti di legno, libri, ceramica, coperte e cuscini, taccuini. Viene anche fornita una lista di ricette “hygge”. Nel capitolo dedicato alla luce, l’autore racconta: “Una volta, a Roma, vagai per due ore con la mia fidanzata dell’epoca prima di trovare un ristorante che avesse un’illuminazione hyggelig” e spiega che l’ossessione danese per l’illuminazione è una diretta conseguenza della scarsità di luce naturale nel periodo compreso tra ottobre e marzo.

Wiking non si nasconde dalla dimensione sociale del tema che ha deciso di trattare e studiare: scrive infatti anche del ruolo decisivo giocato dal modello assistenziale danese, che permette ai suoi cittadini di godere di una ricchezza collettiva notevole, in cui incertezza economica e lavorativa incidono meno che altrove e in cui i confini tra vita privata e lavoro si possono ancora definire più o meno netti.

Post-truth” è stata la parola del 2016 secondo l’Oxford Dictionary, ma nella shortlist (che contiene anche “alt-right”, “chatbot” e “Brexiteer”) era finita anche “hygge”. Nella lista delle dieci parole del 2016 stilata dal Collins Dictionary pare quasi un errore trovare la parola “hygge” (con relativa definizione e foto esemplare), fianco a fianco con “Uberization”, “snowflake generation”, “Trumpism”, “Brexit” e “mic drop”.

In coda alla top ten del Collins spicca tra gli altri l’acronimo JOMO (Joy of Missing Out) che, in antitesi con il più popolare FOMO (Fear of Missing Out, l’ansia di perdere eventi o occasioni significative), identifica tra le altre cose la gioia dello stare a casa a rilassarsi senza stressarsi o provare invidia per eventi e situazioni cui non si sta prendendo parte. Hygge, FOMO, JOMO. Parole brevi, facilmente memorizzabili, che si prestano a essere trasformate in hashtag e quindi in potenziali trend che magazine, blogger, brand e case editrici possono adottare e cavalcare nello storytelling dei loro prodotti e servizi o per indicizzare meglio un articolo o un’app. Poco importa che nessuno al di fuori dei danesi abbia ancora capito come si pronuncia esattamente hygge, perché il suo potenziale risiede soprattutto nella forma scritta, uno dei tanti frammenti di informazione che acquisiscono talmente tanto valore da generare non solo profitti, ma anche da indurre un senso di appartenenza per chi li usa e adotta, pur estrapolati dal contesto originale.

Le conversazioni degli utenti su Twitter, Instagram e altri social sono il punto di partenza e arrivo: un utilissimo bacino di trendsetter più o meno volontari, che rivestono il ruolo di ispiratori, influencer e infine di potenziali clienti.

Tra le tante definizioni di JOMO in cui sono incappata online, ho potuto constatare che tutte o quasi riportano, o nel testo, o nell’immagine, un diretto riferimento alla scelta di trascorrere il tempo sotto al piumone leggendo un libro mentre si sorseggia una bevanda calda o al guardare la propria serie TV preferita su Netflix ordinando cibo d’asporto. La gioia del perdere eventi e non ossessionarsi con la propria vita sociale può manifestarsi in tantissimi modi, a seconda della propria soggettività ed esperienza, ma limitando l’acronimo ad un immaginario prestabilito è più facile individuare, creare e/o imporre un set limitato di bisogni e beni. Bisogni e beni di cui premunirsi per stare al passo con i trend attuali, a dispetto della dimensione quasi ascetica che la joy of missing out potrebbe inizialmente evocare.

Nonostante questo, il concetto di hygge non è da buttare. Come non lo è “lagom”, un avverbio svedese usato per indicare moderazione ed equilibrio e che alcuni giornalisti di Vogue, Elle, Huffington Post e altri magazine online si sono affrettati ad additare come la tendenza imperdibile del 2017. I valori originariamente legati a questi termini, così radicati nelle rispettive culture d’origine da risultare pressoché intraducibili, sono molto importanti e il loro intreccio con la storia, la politica e la cultura scandinava rende qualsiasi tentativo di esportazione una forzatura, che talvolta rasenta la comicità (non a caso, gli ultimi mesi hanno visto comparire le prime parodie della hygge-mania sotto forma di libri e articoli).

Il problema sta nella convinzione che un valore si possa importare seguendo una precisissima to-do list di acquisti e scelte in assenza dell’infrastruttura e della cultura originale, e che questa convinzione sia monetizzabile grazie all’incertezza economica e sociale che ci circonda.

Nel solo 2016 sono usciti più di 20 libri a tema “hygge” negli Stati Uniti e si è creato un vero e proprio trend editoriale nel Regno Unito, i cui strascichi si stanno facendo sentire anche in altri Paesi europei come la Francia e la Polonia. Tutti Paesi caratterizzati da instabilità politiche, estremismi e dall’avanzata di una “nuova” destra ultraconservatrice e xenofoba. Non pare un caso che proprio l’Olanda, dove il leader della destra radicale Geert Wilders sta guadagnando consensi e popolarità, sia il Paese dove è stato concepito Flow Magazine.

Rivista cartacea pubblicata in quattro lingue, negli ultimi anni Flow Magazine è diventato un feticcio di molti appassionati di lifestyle e illustrazione, grazie a un abile mix di pezzi su salute mentale e ricette, mindfulness e arredamento, personal essay e tutorial per “paper lovers”. Sfogliare un numero di Flow Magazine è un’esperienza sensoriale: mentre la vista è stimolata da colori pastello e pattern che ricordano certe texture di IKEA o Marimekko, le dita incontrano carte di diverso spessore e consistenza e non è raro imbattersi in elementi pop-up interattivi da compilare, decorare, tagliare e/o staccare.

Nel mondo magico della rivista c’è solo un grande assente: il mondo reale. O meglio, il mondo che sta al di fuori del sé, della dimensione intima, familiare e personale. In questa estrema individualizzazione delle relazioni e degli accadimenti che caratterizzano la vita di tutti i giorni, Irene Smit, una delle due fondatrici di Flow, da oltre 20 settimane si chiede – in una rubrica online – come mai lei e le persone che la circondano non riescano a fare a meno di utilizzare spesso lo smartphone e di aprire i social anche quando non sarebbe necessario.

Nonostante l’oggettiva rilevanza del tema e lo spirito propositivo e introspettivo dell’autrice, il quesito si incarta su se stesso di settimana in settimana. Non vengono coinvolti fattori esterni, il piano individuale non si incontra con quello sociale, politico e culturale. Il linguaggio prende spesso una piega eccessivamente autocritica, quella di una voce che non sapendo a chi dare la responsabilità di una debolezza non può che farla ricadere su se stessa.  

Leggendo una citazione stampata sulla copertina di uno degli ultimi numeri (“None of us want to be in calm waters all our lives” di Jane Austen) e trovando all’interno dello stesso numero uno speciale dedicato a Sylvia Plath, mi torna in mente un passaggio tratto da un articolo di Charlotte Higgins, pubblicato lo scorso novembre dal Guardian, dal titolo “The Hygge Conspiracy”: “Uno dei libri meno sofisticati suggerisce di realizzare un ‘festone invernale’ e un ‘copritazza’, il secondo dei quali dovrebbe essere realizzato con bottoni, lustrini e un vecchio calzino. Il consiglio di darsi a un’attività hyggelig, andare in bicicletta, è accompagnato da una citazione motivazionale della quintessenza della contentezza esistenziale, Sylvia Plath”.

Il ricamo, il DIY, la bicicletta. I collage, la cucina, il bricolage. I fiori di carta, i festoni, la meditazione. Jane Austen, Sylvia Plath, Virginia Woolf, il cui ruolo nel Bloomsbury Group ha assunto dimensioni epiche in un pezzo pubblicato sul numero 10 di Flow.

Il linguaggio motivazionale e al tempo stesso quasi intimista, che trasforma questi hobby legittimi e questi personaggi interessanti in trend e stili di vita da adottare in maniera acritica, contribuisce a rafforzare un modello di femminilità moderno, benestante e cosciente, ma isolato dal resto del mondo, la cui massima espressione potrebbe tradursi in tutte quelle sintesi iconiche di hygge jomo: un piumone, una tazza di tè caldo, un buon libro, un paio di calzettoni di lana pesanti, al massimo un po’ di cibo consegnato a domicilio. La porta di casa tanto vale non aprirla, specialmente se fuori regna la tempesta.  

“La stanza tutta per sé” invocata da Virginia Woolf è stata estetizzata e decontestualizzata a tal punto da diventare una trappola, in cui ogni elemento, libro, pezzo di design, mobile, scelta di vita, acquisto, decisione, deve veicolare un significato e un valore al di là della propria funzione. Tutto deve avere e riflettere una personalità.

L’arrivo dell’ondata hygge in Italia (e tra le altre cose del fenomeno editoriale Flow Magazine, sempre più distribuito nel nostro Paese, soprattutto nel Nord Italia e a Milano), in concomitanza col particolare momento storico e politico che stiamo affrontando, la disgregazione sociale e il precariato, potrebbe segnalare che anche da noi sono presenti i presupposti per un’adozione passiva di scelte e stili di vita che, ben impacchettati e scintillanti come appaiono sugli scaffali delle librerie e di Internet, paiono servire su un piatto d’argento la soluzione ai nostri problemi al costo di pochi euro o di una manciata di minuti di lettura. Soprattutto in quelle città e infrastrutture dominate dall’assenza di sostegni sociali e assistenziali forti e dalla competitività lavorativa, sarà più facile cercare un senso di appartenenza in termini e riferimenti culturali “destrutturati” e importati da quei Paesi che idealizziamo per contrasto col nostro. Se nessuno intorno a noi, nella nostra vita reale e non virtuale, sarà disposto o pronto ad accoglierli, potremo sempre fare una ricerca hashtag o rivolgerci a Google. Lì potremo cercare sicuramente una risposta e tanti utenti o blogger che condividono i nostri interessi.

Forse tutto ciò che è importante estrarre da concetti come hygge e JOMO è ciò che paradossalmente, nella loro ossessiva trasformazione in trend, si perde: il senso del non farsi travolgere da riferimenti e linguaggi che non ci appartengono; del prendersi cura di se stessi; del dedicare tempo a coltivare relazioni reali, indipendentemente dall’estetica degli oggetti, del cibo e dei mobili che ci circondano.